JoJo Rabbit
Taika Waititi

da: Il Libraio

Erano anni che non ridevo tanto per un film, erano anni che non mi si spezzava così il cuore.

Johannes Betzler detto Jojo ha dieci anni e vive in Germania nel momento peggiore della Storia: l’estate del 1944, quando la blitzkrieg scatenata dall’espansionismo nazista sta registrando le ultime, sanguinose battute. Ormai è chiaro che l’avanzata degli Alleati è inarrestabile, che gli americani e i russi hanno ribaltato le sorti della guerra e molto presto la riporteranno in casa del Führer. Il Reich millenario ha i giorni contati, ma questo il piccolo Jojo non può saperlo: imbevuto della stentorea propaganda di Goebbels si appresta con orgoglio a diventare un uomo nel campo estivo della gioventù hitleriana. E non importa se è il più minuto, il più fragile, il più improbabile del branco: lui può contare sul sostegno e sui consigli del miglior amico immaginario possibile, Adolf Hitler.

Liberamente ispirato a un bel romanzo di Christine Leunens (ripubblicato a fine 2019 da SEM con il titolo Il cielo in gabbia), Jojo Rabbit è un incrocio magistrale fra commedia nera e dramma storico, in cui tutto è ricostruito con realismo documentario ma infarcito di battute e gag senza sosta, in un contrappunto costante tra serio e faceto, commovente e demenziale. Un incrocio non inedito – ricordate Train de vie? – ma confezionato in maniera così impeccabile da diventare esemplare. Jojo crede ciecamente ai proclami del regime, sogna di incontrare un ebreo (che riconoscerà dalle corna e dal caratteristico odore di cavoletti di Bruxelles) per poterlo pugnalare con il suo coltellino stondato, e mai per un istante dubita che il sangue germanico di cui va tanto orgoglioso possa proteggerlo da ogni male.

Così, quando il male lo colpisce, l’apprendista nazista rimane più che interdetto, e in assenza di un padre, e non potendo contare su una madre tanto affascinante quanto sfuggente (l’ottima Scarlett Johansson), non gli resta che chiedere conforto al capitano del suo plotone (l’ottimissimo Sam Rockwell) – il quale però ha cose più importanti a cui pensare: le nuove divise da supereroe con cui conta di affrontare i russi, i cloni ariani che devono essere portati a spasso una volta al giorno, le esercitazioni militari in acqua «nel caso dovessimo affrontare il nemico in una piscina»…

Difficile dire altro senza dire troppo – nella trama ci sono colpi di scena degni di un thriller – ma del resto non serve andare oltre il primo quarto d’ora per intuire la ricchezza del film. Il regista e sceneggiatore Taika Waititi, nato in Nuova Zelanda da padre maori e madre di origini russe, irlandesi ed ebraiche, mette in campo un tale meticciato di idee e soluzioni che per coglierle tutte occorre vedere il film più volte, come accade nelle opere di un suo chiaro riferimento, lo stralunato Wes Anderson (e non a caso la parte iniziale di Jojo Rabbit ricorda il campo scout di Moonrise Kingdom, solo con le granate al posto dei bastoncini).

Per fortuna la prima visione è così emozionante e divertente che lo spettatore esce dalla sala con il desiderio di rientrarci subito (o di prenotare il dvd, come ho fatto io). Dai titoli di testa – che mostrano il delirio generale nelle adunate hitleriane mentre i Beatles cantano I Want To Hold Your Hand in tedesco – fino ai titoli di coda – dove David Bowie rischiara le tenebre con Helden, versione berlinese di Heroes – l’impressione è che nessuna sequenza sia lasciata al caso, tra continue citazioni (The Grudge per l’oscura scoperta di JoJo, Helzapoppin’ nella sequenza di guerra) e sottili simbolismi che si addensano scena dopo scena, accumulando in mezzo a tante risate una carica emotiva che diventa devastante sul finale. Dove però il regista non ha cuore di (o forse al contrario ha troppo cuore per) lasciarci in bocca l’amaro del romanzo. E lo so che per alcuni questo abbasserà il valore dell’opera – “consolatoria”, diranno, come se consolare non fosse il più nobile dei fini – ma so anche che a moltissimi trasmetterà grande entusiasmo, e il desiderio di consigliare il film a chiunque: parenti, amici, nemici. Un circolo virtuoso che pochi artisti sanno innescare, e che in presenza di una storia importante non è solo desiderabile, ma necessario.

«Cos’hanno fatto?» chiede Jojo a sua madre di fronte a un gruppo di impiccati.

«Quello che potevano.»

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