La città senza ebrei
Hugo Bettauer

«Signore e signori, io sono un estimatore degli ebrei. Ho avuto amici ebrei, sono stato seduto al cospetto di maestri ebrei che onoravo e ancora onoro, in ogni momento sono pronto a riconoscere, anzi ad ammirare le virtù connaturate negli ebrei, la loro straordinaria intelligenza, il loro tendere in avanti, il loro esemplare senso della famiglia, la loro capacità di adattarsi a ogni ambiente! Proprio per questo, nel corso degli anni, in me è cresciuta sempre di più e sempre più forte la convinzione che noi non ebrei non possiamo continuare a vivere vicino e tra gli ebrei. La cosa è semplice: noi ariani austriaci non siamo all’altezza degli ebrei, siamo dominati, oppressi, violentati da una piccola minoranza, proprio perché questa minoranza possiede delle qualità che ci mancano. Da questo e solo da questo punto di vista si deve vedere il problema degli ebrei qui da noi. O noi o gli ebrei!»

Inizia così, con le parole di un fittizio cancelliere viennese rivolto al suo parlamento, uno dei libri più divertenti, e insieme sottilmente inquietanti, che mi sia capitato di leggere da molti anni a questa parte: La città senza ebrei di Hugo Bettauer. Pubblicato nel 1922, ben tredici anni prima delle leggi di Norimberga «sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco», il romanzo umoristico di Bettauer immagina che l’Austria, con il beneplacito della Società delle Nazioni, voti compatta per l’espulsione dal territorio nazionale di tutti gli ebrei, compresi i frutti di matrimoni misti risalenti a due generazioni prima. La misura, priva di violenza anche nella forma e anzi attenta a garantire eque compensazioni a banchieri, negozianti e possidenti ebrei costretti a vendere tutto prima di partire, dovrebbe nella logica comune restituire il potere all’autentico austriaco, ovvero all’ariano, ritemprandone la razza e aprendogli un glorioso futuro. La risposta del popolo è perciò festante, e gli ebrei vengono accompagnati al confine con canti e balli. Senonché.

Senonché presto viene a galla una verità a lungo sottovalutata: che gli ebrei, dell’Austria, non sono i parassiti, ma la linfa. Le prime ad accorgersene sono le donne, private dei loro amanti più sapienti e generosi. Seguono i commercianti della moda, che non potendo più contare sulle confezioni dei sarti ebrei si ritrovano a esporre in vetrina abiti campagnoli (il revival del fustagno). Gli artisti sono contenti – con la concorrenza ebraica non erano mai riusciti a fiorire – ma molto meno contenti sono i loro committenti, che iniziano a rivolgersi agli ebrei espatriati. I banchieri, poi, rilevano istituti di credito compromessi dal taglio di ogni rapporto con la grande finanza mondiale, in larga parte ebraica. E così via. In men che non si dica Vienna, la città che non ha ragione di vita senza lusso, perde ogni lusso, ogni ricchezza, ogni valore, e a quel punto la nostalgia per i vecchi cari ebrei, che alla fine dei conti tenevano oliati gli ingranaggi della macchina, diventa schiacciante. Sarà mica troppo tardi per riprenderseli indietro?

 

Composto per brevi quadri narrativi che affrontano la crisi post-semita da diversi punti di vista (i borghesi, i cristiani, i negozianti, le mantenute…), La città senza ebrei è un romanzo singolarmente attuale che dimostra una sagacia e un’inventiva mirabili, da conte philosophique, per nulla inquinate dalla consapevolezza di quello che sarebbe davvero successo in Germania pochi anni dopo la pubblicazione, agli ebrei in generale a all’autore in particolare. Scrivendo ancora prima del putsch di Monaco, Bettauer non poteva sapere quale tragedia si nascondeva dietro le prime avvisaglie dell’ascesa nazi-fascista. Conosceva senz’altro l’antisemitismo diffuso nella società tedesca, ma come avrebbe potuto prevedere la violenza estrema con cui il governo legittimo di una nazione civile avrebbe attaccato una parte integrante della popolazione? E come avrebbe potuto immaginare che proprio lui, intellettuale di successo celebrato dai grandi del suo tempo, sarebbe finito vittima di un’aggressione antisemita, ucciso nell’indifferenza generale appena tre anni dopo? A leggerlo in questa chiave, il romanzo assume toni cupi, cupissimi, e l’autore si trasforma in una tragica Cassandra poi condannnata a una vera damnatio memoriae.

Ma non renderemmo giustizia alla sapienza paradossale della Città senza ebrei se non  sottolineassimo gli aspetti lievi, quasi farseschi della storia, che alla pars destruens del bando antiebraico fa seguire una deliziosa pars construens in cui due innamorati senza speranza, lei ariana e lui ebreo, riescono con la sola forza della loro intelligenza a rovesciare la situazione politica, seminando sulla loro strada amore, sorrisi e risate a profusione. Perché è qui la grandezza di questo piccolo gioiello riportato alla luce dopo decenni di immeritata oscurità: saper dire e predire avvenimenti tremendi senza lasciar mai vacillare la fiamma ironica dell’illuminismo, senza mai perdere non la speranza, ma la certezza che anche dopo la notte più nera arriva l’alba. Un racconto che muove e commuove, ma soprattutto insegna, ricorrendo alla più antica e infallibile delle arti: divertire.

«Dopo l’espulsione degli ebrei, tutta Vienna si trasformò in un accampamento militare di croceuncinati. Quasi tutti gli uomini e le donne, gli adolescenti e i bambini portavano il distintivo che si vedeva su tutti i manifesti, bandiere ed emblemi. Poiché però alla fine lo portava anche ogni vagabondo e ogni ladruncolo pescato sul fatto, e ogni volta nelle stazioni di polizia si diceva: “il fermato portava una croce uncinata”, le persone più intelligenti cominciarono a toglierselo, e dopo di loro anche i borghesi e le grandi masse se ne liberarono.»

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