Violette di marzo
Philip Kerr

da: Il Libraio

Una grande verità poco contemplata è che al mondo il talento non è raro: al contrario ce n’è a bizzeffe, tutti quanti ne siamo dotati in qualche forma o misura. Il più è scovarlo, coltivarlo e sostenerlo per il tempo necessario a trovargli uno sbocco. Ma il genio, inteso come il dono imperscrutabile di vedere ciò che nessuno ha visto prima e farne ciò che nessuno aveva ancora fatto, quello sì che è raro.

Berlino 1936, durante le Olimpiadi volute da Hitler per affermare la superiorità della razza ariana, senza sapere che proprio in quell’occasione esploderà la stella di Jesse Owens, leggendario atleta di colore. In attesa del pubblico internazionale, la città viene pettinata a dovere: le bacheche che espongono invettive anti-ebraiche sono rimosse, i libri proibiti dal Reich ritornano temporaneamente in vendita, le forze dell’ordine aumentano la pressione sulle strade. La capitale, in superficie, è florida e quieta come non mai, eppure le persone continuano a scomparire, i campi di concentramento si ingrossano giorno dopo giorno e la malavita prospera tanto nei bassifondi quanto al riparo delle grandi ville sull’Havel. Chi ha cara la pelle non si lascia ingannare dall’apparente pax olimpica, e men che meno si immischia negli affari altrui.

Bernie Gunther, però, dell’immischiarsi negli affari altrui ha fatto un mestiere – investigatore privato al soldo del miglior offerente – e alla sua pelle, dopo la morte della moglie e la fine di quel paradiso dei sensi che fu la Repubblica di Weimar, non sembra tenere poi così tanto, o almeno non quanto tiene alla propria integrità. Così, quando un industriale invischiato nel Regime gli chiede di indagare sulla scomparsa di un’inestimabile collana di diamanti, Gunther si spinge ben oltre i limiti del dovere: i conti non gli tornano, in quella fosca vicenda che arriva a coinvolgere gli alti vertici del Reich, e il detective – “l’unica persona in città che non possiede un’uniforme” – sente la necessità di vederci chiaro, anche a rischio della vita.

Scritto seguendo alla lettera un’ideale Manuale del poliziesco hard-boiled, Violette di marzo (Fazi, traduzione di Patrizia Bernardini) è un debutto sorprendente per più di una ragione. La principale oggi non è forte come doveva esserlo trent’anni fa, al tempo della prima pubblicazione: allora l’idea stessa di raccontare la Berlino nazista con i moduli del romanzo criminale era qualcosa di inimmaginabile, e Philip Kerr – scozzese classe ’56 mancato nel 2018 – si sarebbe potuto fare un nome già solo declinando quello spunto spiazzante con un’educata trama gialla.

Va detto che a prima vista è proprio questo che accade nella storia, così riassunta da uno dei personaggi chiave: “il misero ometto nell’ufficio poveramente ammobiliato che beve come uno che si è perso d’animo prima di suicidarsi e viene in aiuto della bella ma misteriosa signora in nero”.

Condito con un campionario di battute taglienti e immaginifiche alla Chandler (pur con qualche eccesso che ricorda Kaiser Lupowitz), un intreccio del genere rischia di apparire persino scontato. Ma a parte che un buon cinquanta percento di quest’impressione deriva dalla perfezione con cui Kerr costruisce il mondo e il mood, una volta giunti al gran finale non può che cadere ogni riserva: dal genere si sconfina infatti nel genio, e al lettore più critico non resta che alzare le mani e arrendersi, conquistato.

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